giovedì 14 luglio 2011

L'angolo dell'ospite: La Ballata dei precari





L'altissimo ministro Renato Brunetta si è sposato e invece delle 19.30 come era inizialmente previsto, ha convolato a nozze a mezzanotte, per beffare i precari che avevano minacciato di rovinargli la festa, visto che con loro non era stato molto tenero. Personalmente non condivido queste forme di protesta, anche se capisco che bisogna inventarsi sempre nuovi modi per smuovere i sederi di quelli che occupano delle poltrone decisionali.
Chi invece secondo me ha fatto qualcosa di interessante è Silvia Lombardo, una ragazza davvero in gamba che lavora da anni nel campo della comunicazione da precaria.

L'ho conosciuta attraverso un intervento di Barbara Palombelli su Vanity Fair e, come direbbe Archimede, eureka: ho deciso di intervistarla. Silvia, assieme a due amici, ha scritto un film che si chiama La Ballata dei Precari,  dove attraverso uno sguardo ironico (ma al tempo stesso profondo) ha saputo esprimere questo grosso problema sociale.
Ecco a voi la prima parte dell'intervista.


Ciao Silvia, domanda che ti/vi avranno fatto già tutti: com’è nato questo progetto e come avete fatto a coinvolgere anche volti più conosciuti?

Il progetto è nato circa 3 anni fa. Parlando con due miei amici di vecchia data –Giordano Cioccolini e Tiziana Capocaccia, entrambi appassionati di cinema e scrittura, architetto e psicologa precari – abbiamo cominciato a scherzare sulla possibilità di raccontare noi le difficoltà del precariato che avevamo vissuto (e continuiamo a vivere) sulla nostra pelle.
Abbiamo scritto le prime tre sceneggiature e messo in rete un annuncio che parlava di un progetto filmico dal titolo “La Ballata dei Precari”. Siamo stati inaspettatamente sommersi dalle email di giovani professionisti del cinema molto interessati. Anche il cinema – anche se da sempre considerato lavoro stagionale – è stato investito dal vortice del precariato: lavoro ancora più saltuario, stage gratuiti e retribuzioni decisamente più basse rispetto al passato.
Così abbiamo messo su una bella troupe con tutte le maestranze e abbiamo girato il primo corto, “2050”. Poi abbiamo visto che in effetti funzionava. Mentre giravamo il secondo abbiamo scritto le altre sceneggiature. E ora ci troviamo con un film di circa 80 minuti.
Per quanto riguarda i volti noti, sicuramente il caso più eclatante è quello di Geppi Cucciari. L’abbiamo contattata via mail, chiedendole se fosse interessata a partecipare ad un progetto cinematografico fatto da precari per i precari.
La risposta ci sorprese, a dir poco: “Mandatemi la sceneggiatura: se mi piace lo faccio gratis e molto volentieri”. Un mese dopo dirigevamo Geppi Cucciari nei panni della Dottoressa Tenaglia, una ginecologa folle, inventrice di un dispositivo per mamme precarie.
E così è stato anche per Francesca Faiella (“Se sei così ti dico sì”), Roberta Garzia (la Gaia di “Camera Café”), Marco Cortesi (interprete di programmi Rai e del film “Il siero della vanità”) e molti altri giovani attori di talento.

I quesiti che ponete con il vostro film sono molto concreti: si passa dalla mancanza di progettualità futuro, al rischio per le donne in gravidanza di non avere più un lavoro, alla paradossale macchina della formazione post universitaria: come mai, secondo voi, si faticano a maturare risposte concrete?

Il problema è sicuramente di difficile soluzione e molto articolato, e non può prescindere anche dalla situazione economica mondiale. Ma sono sicura che sarebbero molti gli interventi possibili che non vengono neanche presi in considerazione.
Ad esempio: perché non si fa un serio monitoraggio del numero di contratti o delle retribuzioni proposte dalle aziende? Il precariato non riguarda solo la piccola imprenditoria più difficile, forse, da controllare, ma anche grandi e grandissime aziende su cui le istituzioni potrebbero effettuare dei controlli.
Ora: se una cosa è possibile e non viene fatta, cos’è che manca? A mio avviso, la volontà.

In questi anni, complice la crescita del fenomeno, la precarietà è diventato un tema su cui raccontare delle storie: al cinema (Generazione 1000 euro, Tutta la vita davanti) e a teatro (Tu (non) sei il tuo lavoro). La mia sensazione è che sia diventato “eticamente giusto” parlarne, ma che poi la cosa finisca sempre lì, solo a parole. Voi, invece, siete persone che sanno di quello che parlano, poiché precari lo siete (o siete stati) veramente. Cosa vi proponete con La ballata dei precari?

Appunto. Noi siamo precari, sappiamo di cosa stiamo parlando. E sicuramente, non avendo alle spalle una casa di produzione, non abbiamo la necessità di rispondere alla richiesta di un happy end da botteghino.
Quindi l’unico lusso che ci siamo potuti permettere a costo zero, dovendo risparmiare sui mezzi tecnici, è stato quello di dire la verità.
Tirata, ovviamente, all’estremo. Da precari, portare le nostre storie nude e crude sullo schermo non ci avrebbe dato soddisfazione ma soprattutto sarebbe stato un semplice piangersi addosso.
Buttarla invece sul grottesco e sulla risata – con un retrogusto amaro, come facevano grandi maestri del calibro di Germi, Scola, Monicelli negli anni ’60 e ’70 – ci è sembrato il modo giusto per portare il pubblico sul problema e, dopo averlo fatto ridere, farlo riflettere.
Soprattutto “La Ballata dei Precari” è la dimostrazione che se hai qualcosa da dire devi farlo e basta, con tutti i mezzi che hai a disposizione. E se non bastano, trovare altre persone che la pensino come te. E’ un nostro diritto, ma soprattutto un nostro dovere, non chiudere gli occhi di fronte a questa catastrofe economica che ci sta investendo.
Un piccolo traguardo lo abbiamo già raggiunto: durante alcune proiezioni di spezzoni del film persone del pubblico mi hanno detto “Ma poi mi paghi i diritti: è la storia mia!”. Una grande soddisfazione per noi: siamo riusciti a fare qualcosa in cui i nostri compagni di sventura si riconoscono.


Per raccontare una situazione difficile avete scelto l’ironia. Il riso può essere un’arma di riflessione potente?

L’ironia provoca, secondo me, emozioni forti e contrastanti. L’emozione è sempre qualcosa di provocatorio e una provocazione costringe a riflettere. Da ragazzina i primi film che ho amato erano film fortemente ironici: “Dramma della Gelosia”, “Romanzo Popolare”, “Sedotta e abbandonata”, parlavano di divorzio, di condizione della donna, di diritto di famiglia. Tutti problemi molto sentiti dagli italiani dell’epoca, che vivevano sulla loro pelle queste storie che a volte erano veri e propri drammi.
I grandi maestri del cinema riuscivano a trascinare nelle sale il pubblico, a divertirlo e fargli sentire che non erano soli e che forse era arrivato il momento di cambiare le cose. E infatti, proprio negli anni ’70, le cose cambiarono parecchio. Sono convinta che lo scrivere, il narrare, possano essere grandi strumenti politici e sociali.

(La prossima settimana la seconda parte)

* Il copyright delle foto è del sito laballatadeiprecari.com 

** Il video è tratto dall'episodio Masterizzati. 

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